1 ottobre 2014

Con l’orario di Pechino alle 8.00 è ancora buio pesto. Facciamo colazione al Van parcheggiato nel cortile dell’hotel. Ci aiutiamo con le luci da minatore, non c’è illuminazione, e dopo il caffè prendiamo la strada verso sud est. Si esce facilmente dalla città, le vie sono deserte, e dopo solo 20 km siamo in autostrada, altri 100 e siamo in pieno deserto. Kashgar, o Kashi, è definita infatti una città oasi e come lei ce ne sono molte altre situate ai margini del deserto del Taklimakan.

Ci godiamo l’alba percorrendo la striscia d’asfalto che taglia la sabbia inesorabilmente. Il traffico aumenta, soprattutto quello di mezzi pesanti. Incrociamo parecchi posti di blocco, la presenza della polizia e militari è fortissima in questa provincia e non passa assolutamente inosservata. Postazioni blindate, armi pesanti, giubbotti antiproiettili, squadre antisommossa, swat, c’è veramente di tutto. Veniamo fermati almeno tre volte per un controllo polizia ma Tony, la nostra guida, se la cava in un attimo. Le moto non pagano autostrada, ed è un autostrada particolare: due corsie, una corsia, mezza corsia e poi riprende. L’ingresso è consentito anche ai carretti trainati da somari, biciclette e tutto quello che si muove su due ruote. Si improvvisano mercatini in autostrada con il melograno come frutta principe. Facciamo benzina senza troppe difficoltà, per una volta, e riprendiamo il viaggio che il sole è alto e spara 30°.

Altri 200 km e cerchiamo una piazzola per mangiare, Hotan e a due passi. Sostiamo nei pressi di un mercatino e montiamo il tavolo in plastica. Io provvedo a sostituire la mia lampadina anteriore, è la terza volta in 1 anno che salta, si lubrificano le catene e Marco se la deve vedere con la sua Caponord, non gli parte più. Con santa pazienza smonta il serbatoio e per fortuna la causa è solo il tubo benzina piegato.

Apriamo le varietà di tonno e mettiamo su il caffè. Si avvicina a Mehmet una donna distinta, vestita di nero e con fare garbato gli chiede i documenti: lavora al distaccamento di polizia a pochi passi da dove ci siamo fermati, in mezzo al deserto, e vuole accertarsi su chi siamo. Tira fuori il suo tesserino e per fortuna parla turco: Mehmet gli spiega che siamo turisti in transito ma lei non sembra convinta. Ci guarda senza lasciar trasparire nessun tipo di emozione, una sfinge. Continua a fare delle domande a cui Mehmet risponde e solo dopo 20 minuti si convince e va via.

La comitiva riparte e mancano solo 100 km prima di giungere in albergo. Il deserto ha un fascino unico, un vento leggero alza ondate di sabbia che ci investono delicatamente. All’orizzonte dune altissime che sembrano montagne interrotte solo da stabilimenti di non so cosa che sputano dalle ciminiere del fumo puzzolente che oscura completamente il cielo. Lasciamo l’arteria principale e attraversiamo una serie di villaggi poverissimi, le case sono perlopiù baracche e le poche in mattoni sono tutte sgarrupate. A dire il vero fuori dai grandi centri le condizioni di vita sono molto approssimative e la povertà si respira. Hotan conta 160.000 abitanti ma all’ora che arriviamo noi sono tutti in strada. Caos infernale, decine e decine e decine di persone passeggiano in strada, più che sui marciapiedi, e ci muoviamo con estrema difficoltà.

Anche qui polizia ovunque e proprio davanti il nostro albergo sosta un blindato con delle ruote alte un metro e mezzo. La cosa non ci rassicura, sappiamo che la regione è in fermento e di recente sono stati compiuti degli attentati cruenti a cui la polizia ha risposto in maniera energica.

Dopo la doccia rimaniamo in camera, la città non è abbastanza stimolante e la forte presenza di militari in strada toglie tutte le fantasie.